Mark Kostabi, 11 settembre prima e dopo
Lo schianto. Il fuoco e il fumo. I vetri che esplodono. L’acciaio che collassa. Le Torri, simbolo dell’America a stelle e strisce, che vengono giù sciogliendosi come burro. Il terrore. La consapevolezza di una debolezza mai così vicina e odiosa. L’11 settembre 2001 ha trafitto un prima e un dopo nel cuore della Grande Mela e di ogni cittadino degli Stati Uniti. Ce lo ricorda, a tredici anni di distanza dagli attentati che costarono la vita a circa tremila persone, Mark Kostabi, pittore e compositore, americano di nascita e italiano (si può ormai dire) d’adozione. A New York deve la sua fama artistica, ora apprezzata in tutto il mondo. Kostabi è di casa in Abruzzo e in particolare a Civitella del Tronto. Così, anche se lui è a Otranto quando risponde alle nostre domande, è come se questa chiacchierata si fosse svolta all’ombra del Gran Sasso.
Mark, dov’era quando ci fu l’attacco alle Torri Gemelle?
«Ero a Roma, nel mio appartamento a piazza Vittorio, con la mia fidanzata Micaela».
Chi la informò degli attentati?
«La mia fidanzata o mia madre, non ricordo. Mamma chiamò dalla California per assicurarsi che mio fratello, che in quel momento era a New York, stesse bene».
Cosa ha pensato quando ha saputo dell’attacco terroristico?
«Pensai: è questa la fine del mondo?»
Aveva amici tra le vittime degli attentati?
«No».
Come sono cambiati New York, gli Stati Uniti e il mondo occidentale dopo gli attentati secondo lei?
«Immediatamente dopo gli attacchi i grattacieli di New York non apparivano più come simboli di forza. Sembravano invece simboli di vulnerabilità. A New York dovunque si andasse, ristoranti, bar, uffici, case, ogni conversazione verteva sugli attacchi e fu così per un lungo periodo di tempo. Molte persone erano terrorizzate dal pericolo di nuovi attacchi e si chiedevano come poter fuggire da Manhattan nel caso fosse accaduto di nuovo. Uno dei miei amici artisti acquistò persino una speciale zattera con uno speciale equipaggiamento che avrebbe potuto usare nel caso i ponti e i tunnel fossero stati danneggiati da un altro attacco, cosa che costituiva una paura comune. Adesso, tredici anni dopo, la vita è tornata alla normalità. La paranoia collettiva gradualmente si è spenta dopo qualche anno ma nessuno è riuscito a dimenticare. A New York è consuetudine riferirsi agli eventi con espressioni come “prima dell’11 settembre” a “dopo l’11 settembre”. È diventato la data spartiacque di una nuova realtà in cui molti americani non si sentono più invincibili e sono più realistici. Ma allo stesso tempo hanno aderito a un’idea comune. A New York, per molti anni la polizia e i vigili del fuoco sono stati tenuti in grandissima considerazione. I vigili del fuoco sono ancora ammirati ma sfortunatamente, a causa delle recenti notizie relative a comportamenti brutali, non si può dire lo stesso della reputazione della polizia».
La sua arte è cambiata dopo l’11 settembre?
«La mia arte non è cambiata a causa degli attacchi, invece molte persone evidenziano il fatto che qualcuno dei miei precedenti dipinti prefigurasse gli attacchi, in particolare uno del 1990 che mostra un pugno gigante che stringe un aereo jet che vola sopra Manhattan nella direzione dove sarebbero ora le Torri Gemelle. Alcune persone del mondo dell’arte suggerirono a molti artisti di cambiare e di far diventare le loro opere più serie e politiche. Ricordo un artista che disse: “Come può un artista come Gary Hume essere ancora pertinente dopo l’11 settembre?”. Gary Hume era conosciuto per realizzare grandi pitture decorative di fiori. Ma una contro-argomentazione era che Morandi continuò a dipingere nature morte durante la Seconda Guerra Mondiale».
Ritiene che gli Stati Uniti abbiano guarito le ferite degli attentati?
«No, ma la maggior parte della gente concorda nel dire che la vita deve andare avanti. L’atmosfera da party a New York era già terminata sul finire degli anni Ottanta con la morte di Andy Warhol e il crollo economico. Se c’era qualche speranza che la festa potesse tornare presto, l’11 settembre ha debellato tale fantasia. Naturalmente le feste ancora si svolgono ma non c’è niente di simile alle costanti celebrazioni colorate degli anni Ottanta».
Oggi cosa pensa di quel giorno?
«Penso che sia un gigantesco simbolo di vulnerabilità e male. Personalmente, nonostante io viva a New York abitualmente circa quattro mesi l’anno, ero a Roma quando accadde e sono quasi sempre in Italia nel mese di settembre così non ho vive dentro di me la memoria e il trauma della gente che era fisicamente a New York l’11 settembre. Quando ritornai lì pochi mesi dopo, ne ero certamente molto consapevole soprattutto perché l’odore di migliaia di corpi bruciati indugiò in tutta Manhattan per molti mesi ».
Secondo lei la pace nel mondo, oggi, è un obiettivo possibile senza ricorrere alle armi?
«Sì, sono sicuro che potremo avere finalmente la pace nel mondo e accadrà a causa del commercio, della tecnologia e della distribuzione di arte, musica, cultura e cibo. Con la globalizzazione commercial e Internet, l’umanità alla fine realizzerà che siamo tutti fratelli e sorelle nella stessa famiglia umana».
Gli artisti come possono aiutare la pace nel mondo?
«Possono essere fonti d’ispirazione di successo e libertà. Possono mostrare che essere diversi è un valore aggiunto, e non il contrario, e che l’arte può unire il mondo. Quasi tutte le case hanno un qualche tipo di arte sulle pareti».
Cos’è il “Kostabi World” in sintesi?
«È il mio studio a New York dove numerosi assistenti eseguono i miei dipinti. Ho anche creativi che disegnano con la matita su carta utilizzando il mio stile. Nel Kostabi Wolrd io giro il mio show televisivo in cui le celebrità fanno a gara per intitolare i miei quadri in cambio di premi in denaro».
Negli anni Sessanta la rockstar Jim Morrison definì l’auto-intervista una nuova forma d’arte. Anche lei hai utilizzato l’auto-intervista. Lo ha fatto per parlare di arte o per fare arte?
«Erano gli anni Ottanta. Lo feci per divertimento e per fama. Stavo avendo successo vendendo i miei quadri nelle gallerie di New York e i giornalisti mi chiedevano interviste ma io non ero preparato. Non sapevo cosa dire ed ero piuttosto timido. Nessuno mi aveva istruito sul come rilasciare interviste. Ma ero un creativo e sapevo come scrivere. Così un giorno decisi di rispondere alle dieci domande più frequenti che mi venivano rivolte e buttai giù per ognuna di queste una risposta intelligente. Feci un bel lavoro, nella privacy del mio studio e senza le pressioni che per motivi di tempo ricevi dagli intervistatori. Allora, quando la volta successiva un critico d’arte venne ad intervistarmi, si trattava di Carlo McCormick dell’”East Village Eye” che ora ha chiuso le pubblicazioni, come da previsioni mi pose le solite domande e io tirai fuori le mie note. Lui rise del fatto che io stessi usando quello che si chiama “cheat sheet” (un appunto, ndr) ma le risposte gli piacquero e le usò volentieri. L’intervista ebbe un successo tale da essere ripresa anche dal “Village Voice”, dal “New York Times” e da “Art in America”. Iniziai a scrivere altre auto-interviste e a mandarle alle riviste con successo e la cosa divenne parte del mio personaggio».
Che rapporto ha con l’Italia?
«Non penso che ci sia un posto migliore dove vivere. Fatta eccezione per il caos e la corruzione… il cibo, la storia dell’arte, l’architettura e la socievolezza delle persone qui sono incomparabili. Mi piace anche il modo unico in cui l’arte viene venduta in Italia, per esempio attraverso la televisione e gli eventi come “La Settimana dell’Arte” ospitata dalla Galleria Spagnoli in diversi villaggi turistici in Italia. Grazie alla Galleria Spagnoli ho visto così tante belle spiagge e resort montani mentre presentavo la mia arte a un pubblico di collezionisti benestanti in vacanza. È un sistema affascinante e adesso una delle mie gallerie negli Stati Uniti, Martin Lawrence Galleries, sta seguendo questo fenomeno unicamente italiano a Las Vegas. Amo l’Italia anche perché ha sostenuto molto la mia musica. Il mio nuovo album, KOSTABEAT, è stato realizzato con l’etichetta Azzurra Music con sede a Verona. Contiene molte canzoni che ho scritto insieme a Tony Esposito che ha anche arrangiato e prodotto la musica. Una delle canzoni si chiama “Endless Italian Summer (estate italiana senza fine, nella traduzione dall’inglese, ndr) ed incorpora molte delle mie armonie preferite, gli accordi di nona minore, e per questo mi sono ispirato al fatto di aver trascorso tutte le estati in Italia da quando ho iniziato a viverci nel 1996».
Che rapporto ha con l’Abruzzo?
«Molto positivo. Sono spesso in Abruzzo per vedere I miei grandi amici Gino Natoni e Domenico Di Ottavio. Amo stare all’hotel Zunica a Civitella del Tronto e mangiare così bene in quell’elegante sala da pranzo (dove peraltro sono esposte alcune opere di Kostabi degne di nota, nrd). C’è una possibilità che io acquisti casa a Civitella. Negli ultimi anni ho fatto molti concerti con Tony Esposito in Abruzzo, per esempio quest’estate a Montorio al Vomano, Lanciano e Giulianova. E adesso ho iniziato a lavorare con la scultura in ceramica a Castelli, grazie a Gino Natoni e all’esibizione a cui ho partecipato in estate alla Fortezza di Civitella curata da Giacinto Di Pietrantonio. Non avevo mai compreso quanto amassi lavorare con la ceramica ma adesso ha senso: è un qualcosa di molto antico e duraturo allo stesso tempo. È eterno, come lo stesso Abruzzo. E anche se le mie sculture sono figurative, le ceramiche sono spesso associate con la cucina, che l’Abruzzo sa fare così bene».
(L’intervista, nella parte in cui tratta gli attentati dell’11 settembre 2001 e la pace nel mondo, è stata pubblicata su “La Città quotidiano” dell’11 settembre 2014)