Radio e start-up, le due vite di Marco De Dominicis
Chi scrive gli deve un grazie per averlo avvicinato a un genio della musica come Nick Cave. Era il 1988. Avevo i capelli lunghi fino alle spalle e indossavo gli stivali anche d’estate. Barbara mi porse una cassetta, su cui era scarabocchiato il titolo dell’album, “Kicking Against the Pricks”, e mi disse che a suggerirne l’ascolto era suo cugino, un critico musicale. Consumai quel nastro e feci mie quelle canzoni. Ancora oggi le ascolto. Non fu l’unico regalo. Marco De Dominicis, ieri esperto di rock alternativo tra i più apprezzati in Italia, oggi imprenditore, farà capolino anche nel mio lavoro di cronista. La sua “Pagina Locale”, entrata nella top ten delle App più scaricate all’alba della commercializzazione dell’iPad, è ancora adesso un porto sicuro per chi è perennemente a caccia di notizie sul web. Quella che segue, dunque, è qualcosa di più di un’intervista.
Ex giornalista musicale, ora imprenditore. Il tuo primo disco, quello che ti ha fatto scattare la passione per la musica, qual è stato?
«Probabilmente l’album di esordio dei Joy Division, “Unknown Pleasures”, un disco molto bello, molto particolare, che rappresenta anche un momento storico interessante».
Un disco della fine degli anni Settanta.
«Sì, esatto, per la precisione 1979. Io ero ancora piccolo all’epoca. Lo scoprii qualche anno dopo. Mi colpì quel tipo di approccio alla musica, lo trovai molto coinvolgente».
Da lì che tipo di percorso hai seguito?
«Un percorso molto semplice. Quello che potrebbe seguire chiunque ascolti tanta, ma tanta musica come facevo io al liceo. Fu solo all’università, però, che decisi di iniziare a scrivere di musica seguendo quella passione».
Fu facile?
«Il caso volle che il primo articolo inviato a un giornale fosse subito pubblicato. Il giornale era il “Mucchio Selvaggio” (uno dei magazine di musica rock più autorevoli e seguiti tuttora in Italia, ndr). Avevo poco meno di diciotto anni».
E’ stato quello il tuo inizio da critico musicale?
«Da lì iniziò di fatto la mia collaborazione con le riviste musicali, andata avanti per diversi anni».
Per quali riviste hai scritto?
«Per Mucchio Selvaggio, Velvet, Rumore, per l’inserto musicale del Manifesto, per FareMusica».
Di cosa ti occupavi?
«Ho iniziato scrivendo di rock alternativo, poi nel corso del tempo mi sono occupato molto di musica elettronica ma anche di black music americana. Direi che in generale ero attratto dalla musica sperimentale, cioè da quella musica che allora cercava di proporre qualcosa di nuovo e diverso».
Si diceva musica alternativa per intendere cosa?
«A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, il rock mainstream era piuttosto codificato. Era tutto ciò che andava dagli Stones in giù, con un approccio molto blues. Il rock alternativo offriva un approccio nuovo, provava ad inserire suoni più abrasivi, si confrontava con ibridazioni sonore particolari usando anche l’elettronica».
Qualche esempio?
«Gli esempi sono infiniti. Tutta l’epoca post-punk, dai Joy Division in poi, mostra un intero filone in quel senso. Ma è con l’esplosione della musica elettronica, alla fine degli anni Ottanta, che le cose cambiano davvero. Anche l’approccio all’ascolto, da allora, non è più lo stesso. Oggi sono davvero pochi i prodotti che non hanno dentro una componente elettronica molto forte».
Anche i gusti musicali, in effetti, cambiano in fretta. Se ci pensiamo, tanta musica alternativa con il tempo è diventata popolare, cioè ascoltata da una platea ampia di consumatori.
«Certo, ed è un processo inevitabile. Tutte le cose sono nuove o diverse per un periodo. Anche nella musica. Poi ci sarà un cambio generazionale, con un nuovo modo di guardare le cose, che segnerà la differenza».
Ci sono altri dischi di quel periodo, oltre a quello dei Joy Division, di cui non potresti fare a meno?
«Non ce n’è uno e non ce ne sono alcuni in particolare, è difficile fare una classifica quando hai ascoltato tanta musica e lo hai fatto come me per lavoro. Più del singolo artista o della singola band, diventa più importante l’insieme dei fenomeni di cui quei gruppi fanno parte».
Quanti dischi ascoltavi quando scrivevi per le riviste di musica?
«Tra i duecento e i duecentocinquanta ogni anno, ma devo dire che anche oggi sono un discreto consumatore di musica».
Sono curioso: quanti dischi possiedi?
«Più di diecimila, metà in vinile e l’altra metà in cd. Ma ho anche un hard disk molto capiente».
C’è chi dice che un critico musicale è un musicista mancato. È il tuo caso?
«No: mai pensato di fare il musicista (risate)».
E lo dimostra il fatto che, passando alla radio, l’altra tua passione, smettesti di fatto l’attività di critico.
«Sì, perché la radio iniziò a prendermi sempre di più».
In quali radio hai lavorato?
«Prima a Radio Rai, dove iniziai con il programma di musica alternativa “Stereodrome”. Poi seguirono “Planet Rock”, “Stereo Notte”, “Suoni e ultrasuoni”, “Boogie Nights”. Lavoravo come responsabile delle fasce serali dedicate alla musica alternativa, spesso anche come conduttore, prima di passare dietro le quinte e iniziare ad occuparmi dei formati di Radio2 e di Radio3, il che significava cercare di offrire al pubblico un suono unitario e coerenza a ciò che ascoltava».
L’incontro di quel periodo che non dimenticherai?
«L’incontro con John Peel, considerato il più grande deejay radiofonico inglese (celebre il suo programma, le “John Peel Sessions”, in cui ospitava le band per un’esibizione esclusiva di quattro canzoni del loro repertorio. Molti di questi mini-concerti sono stati poi pubblicati su disco, ndr). È scomparso alcuni anni fa. Eravamo a Londra. Io ero agli inizi. Lui era già un monumento vivente. Mi colpirono la grande competenza e la capacità di spaziare tra generi diversi tra loro, dal rock al jazz e alla musica sperimentale. Fu di una disponibilità straordinaria. Parlo di disponibilità a condividere le sue conoscenze con un signor nessuno venuto dall’Italia. L’incontro durò mezz’ora».
Quale fu il tuo ultimo progetto prima di congedarti dal mondo della radio?
«La ristrutturazione di R101. Ricevetti l’incarico da Mondadori, che voleva che la radio, appena acquistata, fosse totalmente ricreata da zero. Al mio fianco c’era Claudio Astorri, uno dei grandi cervelli della radio in Italia degli ultimi venti-trenta anni. Consegnammo il prodotto chiavi in mano a Mondadori. Prodotto che poi ebbe il successo che ha avuto».
E poi?
«Ultimato il progetto R101, mi dissi che erano venute un po’ meno le sfide in quel settore. Così pensai di cambiare per cercare quella adrenalina, quegli stimoli che fino a quel momento la radio mi aveva dato. Avevo poco più di trent’anni quando presi questa decisione».
E cosa scegliesti di fare in questa tua seconda vita?
«Quello che faccio tuttora. Usare la tecnologia nel mondo del digitale per realizzare prodotti e aiutare le aziende a farsi conoscere ed a crescere ma, soprattutto, esplorare l’aspetto più interessante della cultura che viviamo: l’opportunità di usare la tecnologia per rendere facile la vita alle persone, offrendo loro una possibilità espressiva e creativa in più».
Ma questa è un’altra storia. E Marco la sta ancora scrivendo.
CHI È
Marco De Dominicis è nato a Teramo. Oggi vive e lavora tra Roma, San Benedetto del Tronto e Losanna. Inizia la sua attività di giornalista musicale nel 1986 e collabora con numerose testate specializzate. Nel 1989 inizia l’esperienza in Radio RAI con la conduzione al microfono di numerosi programmi musicali fino a passare – nel 1998 – dietro le quinte, diventando responsabile della musica e del format di Radio2 e Radio3. Nel 2005 riceve da Mondadori (assieme ad un ristrettissimo team di consulenti) l’incarico di creare e di lanciare la nuova R101, prima radio del gruppo: sarà un grande successo di ascolti, oltre che la più grande operazione industriale in tempi recenti nel settore della radiofonia. Dopo un anno sabbatico, lascia il mondo della radio e della musica per dedicarsi a tempo pieno all’imprenditoria e creare delle start-up. Tra queste Chosen Time (info: www.chosentime.com), con sede a San Benedetto del Tronto, agenzia specializzata in web marketing e in applicazioni mobile. L’ultima nata è BENTI SA, con sede nel prestigioso parco tecnologico svizzero Y-Parc, vicino Losanna. La società realizza sistemi “digital audio” avanzati e ha ricevuto nel 2014 finanziamenti svizzeri per la qualità della sua “Innovazione Tecnologica”. Da pochi giorni il suo team ha pubblicato DoveQuando.info, nuovo portale dedicato agli eventi abruzzesi.
Nicola Catenaro
Intervista pubblicata su “La Città quotidiano” del 15 maggio 2014