L’arte e la rivoluzione culturale pacifica di Appicciafuoco
Da bambino abitavo con la mia famiglia in via Stazio, palazzo Conocchioli, nel centro storico di Teramo. Sarà per questo che capisco lo scultore Marco Appicciafuoco, cresciuto a poche centinaia di metri di distanza, in via Cameli, all’incrocio con la circonvallazione, quando dice che il profilo della collina di fronte, con i suoi colori e i suoi tramonti tiepidi, lo affascinava tanto da sedurlo e solleticargli l’animo artistico. Classe 1970, amico personale di geni del calibro di Enzo Cucchi, Appicciafuoco mostra un lato umano timido che tradisce la potenza della sua capacità espressiva. Viene considerato vicino a quell’insieme di ricerche estetiche nominate “Transavanguardia” dal critico Achille Bonito Oliva. Il suo capolavoro sono i “Light Flowers”, opere dall’intrinseca luminosità (se così possiamo dire) che gli hanno regalato notorietà e fatto salire le quotazioni delle sue opere.
Quando si è scoperto artista?
«Subito. Mi accorgevo di avere intuizioni fuori dal comune e di prestare più attenzione di altri ad alcuni dettagli. Restavo sempre totalmente rapito da chi eseguiva… Interi pomeriggi trascorsi a guardare chi dipingeva, come ad esempio mio padre a volte. Dal balcone di casa a Teramo su circonvallazione Spalato, se pur distrattamente ero solito guardare la collina di fronte: le fasi dell’aratura e la mietitura, il progredire dei mezzi, la trasformazione, lo sviluppo di un ipotetico disegno, ne ero attratto».
E lei disegnava?
«Sì, trascorrevo molto tempo a disegnare ma anche a giocare. Ero già molto incuriosito dal mondo animale e vegetale, oggi dico biologico. Non è un caso se l’importante critico e mio ex docente di storia dell’arte, Franco Speroni, nel 2010, curando la mia mostra, menzionò le mie sculture “Light Flowers” nella corrente francese “Art Biotech”».
Sente di essere diventato o di essere nato artista?
«Artisti si nasce non si diventa, sono le primissime esperienze a fondare le basi di ognuno di noi ed è il destino che assegna all’artista il compito di percepire e raccogliere i possibili segnali. Credo che oggi solo l’arte abbia il vero potere di guidare il mondo verso una rivoluzione culturale pacifica. E certi recenti accadimenti, che definirei brutali e vigliacchi, lo confermano chiaramente».
Nel ’95, grazie alla rassegna pescarese “Fuori Uso”, ebbe una serie di incontri determinanti. Ce ne parla?
«Un’esperienza importante, quella del ’95, grazie alla quale sulle riviste si parlò di Pescara come di Venezia. In quella occasione incontrai grandi maestri stranieri come Joseph Kosuth, Bill Woodrow, David Hammons, Wim Delvoye e gli italiani Gian Marco Montesano, Michelangelo Pistoletto, Luigi Ontani, Mimmo Paladino, Sandro Chia, Enzo Cucchi. Molti di loro accettarono di venire a Castelli per lavorare la ceramica, il mio compito era di mettere a loro disposizione i materiali e gli strumenti e a chi ne avesse bisogno fornire le preliminari indicazioni tecniche utili allo sviluppo del progetto o disegno in questione, per poi dedicarmi a curare le altre fasi di essiccamento e cotture. Molti rapporti durano tuttora. Ad occuparsene direttamente è Daniela (Faiani, la compagna di Marco, ndr) con lo Studio 52».
Cosa nacque da quegli incontri?
«Ero ancora uno studente e accettai di buon grado le collaborazioni a quattro mani con alcuni di questi artisti. Prima a Modena, presso la Galleria Mazzoli, con Cucchi e Chia per “Prima bella mostra italiana”; la seconda a Pescara ,presso la galleria Manzo, con Cucchi e Pistoletto per “Avamposto Spirituale”. Importanti erano gli equilibri che andavo a instaurare ogni volta tra due cervelli come questi (ride). Uno attaccava gli specchi, l’altro passava e con un martellino li rompeva, a volte la logica era più quella dello scontro che dell’incontro e dover giustificare la scelta dell’altro era cosa interessante ma non semplice».
Da cosa trae ispirazione quotidianamente per la sua arte?
«Dalle esigenze, da quello che colgo dal nostro quotidiano. Alcune mie forme armoniose di certo sono state dettate da piacevoli emozioni. Ma alcuni tratti sono stati imposti da fatti di cronaca, che delle volte risultano molto provocatori come alcune violazioni dei diritti umani o la costante chiamata al risparmio energetico. Le violenze ambientali mi hanno spinto molte volte, troppe, ad esprimermi. Nel 2001 incentrai un mio progetto itinerante sulle discariche abusive, s’intitolava “Silicato Landscape”».
Che definizione userebbe per se stesso?
«Io sono uno scultore contemporaneo che attinge dal vissuto, dalla storia, con il compito di restituire un modello nuovo, modificato dalle esigenze e dalle pulsioni del mio quotidiano, come dell’intera società».
Qual è l’artista che più di tutti l’ha influenzata nel corso della sua carriera?
«Non c’è uno nello specifico, inizialmente ero molto attratto dai risultati fisici e materici di Burri e Fontana, i cretti, i tagli. Forse per questo dopo poco ho scelto l’argilla. La mia tesi in accademia è stata su Merz, poi con le tante esperienze dirette ho avuto l’imbarazzo della scelta. Nel corso degli anni ho avuto la fortuna di raccogliere nozioni, concetti, principi e colui che probabilmente riesce bene a racchiuderli tutti, nel comportamento, è certamente Enzo Cucchi, forse proprio perché non vorrebbe racchiuderne nessuno. Al suo fianco ho assistito a tante intuizioni geniali».
Intuizioni geniali?
«Sì, Cucchi è visionario, cosmico, al punto da avere, secondo me, molti aspetti comuni alla filosofia di Beuys (Joseph, un pittore, scultore e artista tedesco, ndr). In queste esperienze rivoluzionarie e in questi ideali mi riconosco pienamente. Anzi, nel cambiamento che l’umanità si sta accingendo ad attraversare, in special modo nelle forme e nella loro possibile attuazione, è innegabile riconoscere che il maestro tedesco ci abbia visto lungo. Basti pensare che dopo una sua performance si istituì il primo movimento ambientalista della storia».
L’arte come impegno per la salvaguardia del pianeta. Questo vuole dire?
«Al cospetto di così tante emergenze ambientali, quelle che ci sono oggi, dico che non tutti i giorni, mesi, anni sono uguali, si respira la stessa aria o si è sotto la stessa luce. Nella vita si nasce, si cresce e se il pianeta cambia, cambiamo anche noi».
Che differenza sostanziale c’è, secondo lei, fra uno scultore classico e uno scultore contemporaneo?
«È certo che gli scultori di una volta, come noi oggi, hanno risposto alla stessa chiamata: l’attrazione per la materia e per le forme. È da riconoscere che i nostri sforzi non sono affatto paragonabili a quelli di un tempo. Oggi abbiamo la fortuna di poter disporre di ottimi strumenti e di avere libertà e conoscenze a profusione. I cambiamenti, le evoluzioni nel corso della storia sono state spesso dettate dalle controriforme della Chiesa, mutamenti che rivoluzionavano radicalmente gli usi delle masse. Anche oggi ci troviamo a dover far fronte ad importanti cambiamenti, dal punto di vista etico, climatico e tecnico. Probabilmente tra qualche anno gli scultori, gli architetti saranno attratti, chiamati da nuove forme, da altre materie».
Quali progetti ha in cantiere?
«Attualmente mi trovo impegnato in diversi fronti. All’Arazzeria Pennese hanno appena terminato un arazzo eseguito da un mio disegno, “Disgelo”, due brave tessitrici vi hanno lavorato quattro mesi. Ad aprile, a Firenze, sarò coinvolto in una mostra collettiva all’Auditoriom del Duomo. A giugno prenderò parte al “Fifth Free International Forum” di Bolognano, dove lascerò un segno stabile all’Ipogeo di Beuys “Piantagione Paradise” e al Forum. Sia io che Daniela parteciperemo con un lavoro e un corto, il tutto a cura della baronessa Lucrezia De Domizio Durini. Con lei sto anche lavorando alla mia prima monografia» .
Che rapporto ha con Castelli, la città in cui si è inizialmente formato?
«Adoro Castelli, nelle scorse festività natalizie ho avvertito l’atmosfera di una volta, grazie anche alla bella nevicata che aveva finalmente completato i ridotti addobbi, e poi il tepore emesso dai focolari predisposti per le vie centrali, il sapore degli ottimi biscotti, una fiaba… A Castelli ho appena terminato la messa a punto del mio laboratorio, davvero confortevole e allo stesso tempo immerso nel verde del Parco. Come dice Joseph Beuys, “Il luogo è importante. Io dico che viviamo una sola volta su questo pianeta come organismi viventi, per cui il luogo in cui viviamo gioca un ruolo importante nella vita dell’uomo”. Castelli mi ha accolto a braccia aperte e mi ha dato tanta esperienza. Sì, anche l’amore, cos’altro…».
CHI È
Il percorso artistico di Marco Appicciafuoco, classe 1970, teramano, inizia appena finisce la scuola d’arte a Castelli, sul finire degli anni ‘80. Sotto l’egida dell’allora direttore dell’istituto nonché scultore ceramista Vincenzo Di Giosaffatte e su sua segnalazione, avviene l’esordio espositivo con la ceramica, con un buon successo riscosso anche all’estero (Svizzera, Francia e Spagna e diverse partecipazioni ad Arte Fiera di Bologna, padiglione ceramica). Segue poi l’Accademia di Belle Arti all’Aquila, corso di Scultura (110 e lode il voto finale) e la collaborazione nel ’95 alla rassegna pescarese “Fuori Uso”. Da queste conoscenze intraprende diverse esperienze collaborative ed espositive anche all’estero, dal 2000 arricchisce le sue sculture con la luce e la sua carriera cresce sensibilmente dal 2001 con una serie di collettive e personali, come la retrospettiva al Palazzo Caetani di Cisterna di Latina “di naturali esperienze…” che comprende 40 lavori prodotti dal 1995 al 2007, oppure nel 2010 “Light Flowers “ curata da Franco Speroni, presso la galleria Hybrida di Roma. Le sue sculture gli valgono vari riconoscimenti tra i quali lo storico Premio Termoli, il 55°, a cura di Miriam Mirolla, che gli offre visibilità e considerazione negli ambienti dell’arte che contano, e inoltre diverse mostre in Inghilterra, Olanda, Kuwait, la partecipazione al 61° Premio Michetti, il 46° Premio Vasto e quindi la Biennale di Venezia a cura di Vittorio Sgarbi. Ulteriori notizie sul sito www.marcoappicciafuoco.com .
Nicola Catenaro
Intervista pubblicata su “La Città Quotidiano” del 2 aprile 2015