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Romanzo “svela” il primo mistero della Repubblica

un commento

Paolo Di Vincenzo

Un giornalista (oggi anche docente universitario) di quelli con la schiena dritta, mai disposto a barattare la professione (che tuttavia per lui non è mai stata una missione) in cambio di altro. I suoi modi gentili e raffinati e l’aspetto vagamente anglosassone tradiscono questa dote, qualità rara, che però è ben visibile nei comportamenti. Paolo Di Vincenzo, caposervizio della redazione Cultura e Spettacoli de “Il Centro” per tredici anni, non è uomo delle mezze soluzioni. Lo ha dimostrato quando, di punto in bianco, due anni fa, ha lasciato un posto sicuro nel giornale edito da Finegil per prendere la strada che gli suggeriva il cuore. Una decisione che, per ora, ha prodotto un ottimo romanzo, “Il mistero dell’oro di Dongo”, giallo storico autoprodotto secondo le migliori regole del “self publishing” e scritto in modalità quasi autobiografica. Gli abbiamo chiesto di parlarcene. Ecco cosa ci ha raccontato del libro e di sé.

Perché hai scelto il mistero dell’oro di Dongo per il tuo primo romanzo?

«Perché lo considero il primo grande mistero della Repubblica italiana. Oggi non ne sappiamo più niente e molti, soprattutto tra i giovani, non conoscono la vicenda, eppure quella dell’oro di Dongo ha tenuto banco almeno nei primi dieci anni della nostra Repubblica».

Che fine ha fatto l’oro di Dongo?

«Non si sa bene chi abbia preso questi soldi. Di certo, il Partito comunista italiano ha avuto un ruolo in questa vicenda se è vero che si contano alcuni morti tra i partigiani comunisti che videro o toccarono quell’oro».

Quali documenti hai consultato prima di scrivere il libro?

«Ho letto tante ricostruzioni storiche, in particolare quella di Pierre Milza pubblicata in Italia da Longanesi. Da lui apprendiamo che in quel tesoro c’erano anche le fedi nuziali delle coppie abruzzesi e marchigiane, forse perché le ultime a essere state consegnate».

Cosa ne è stato del tesoro?

«Svanito nel nulla insieme al carteggio tra Mussolini e Churchill, di cui il dittatore italiano aveva fatto sette copie consegnate ad altrettanti destinatari tra i quali l’ambasciatore giapponese suo amico. Una l’aveva inviata in Svizzera».

Churchill giudicava compromettente il carteggio con Mussolini?

«Possiamo immaginare di sì. Sappiamo per esempio che dopo la guerra Churchill venne a fare le vacanze in Italia, guarda caso proprio sui laghi di Como e di Garda, nei luoghi dove era stato fermato Mussolini e dove la Repubblica di Salò aveva vissuto gli ultimi mesi della sua sciagurata esistenza. E sappiamo anche che sul lago di Garda l’ex primo ministro britannico incontrò un falegname che aveva costruito delle casse per Mussolini».

Sembra un giallo, in realtà sono cose vere e documentate mi pare.

«La cosa interessante è che ci sono testimoni ancora vivi, in particolare partigiani, di queste vicende. Oltre alla scia di morti che l’oro di Dongo si porta dietro, ci sono episodi raccapriccianti avvolti ancora nel mistero. Come ad esempio la vicenda del partigiano accusato di essere un collaborazionista dal segretario del Partito comunista della provincia di Como, lo stesso che sembra aver avuto un ruolo importante nel trafugamento del tesoro. La realtà, come sempre accade, è molto più esagerata dell’immaginazione».

Materiale sufficiente per un thriller.

«Ho semplicemente inventato un giallo con una soluzione e ci ho messo in mezzo Gabriele D’Annunzio. Non casualmente o per ragioni campanilistiche, D’Annunzio davvero era stato confinato all’interno del Vittoriale, a Gardone Riviera, da Mussolini».

La copertina del libro di Paolo Di Vincenzo

Mussolini temeva che D’Annunzio potesse prendere il suo posto?

«Assolutamente sì, questa è storia. E ci sono innumerevoli episodi che fanno capire come Mussolini non volesse lasciare spazio a D’Annunzio, il quale peraltro lo aveva rimproverato, quasi minacciato, di essersi legato a Hitler perché secondo lui lo avrebbe portato alla rovina».

Nel libro il protagonista, Marino Picucci, è assistito da due donne che sono per lui come angeli custodi. Nella tua vita le donne hanno questo ruolo?

«Ammetto che il libro è largamente autobiografico e che mia moglie, il cui mestiere è effettivamente quello di insegnante, di informatica e non di storia e nell’Istituto tecnico Manthoné e non all’università, è una persona fondamentale nella mia vita. Per quanto riguarda l’altro personaggio femminile, la poliziotta, ricorda una giornalista che effettivamente ha collaborato al giornale sotto le mie direttive e che ora fa un altro lavoro».

Un libro pieno di riferimenti autobiografici e al mondo giornalistico in cui sei vissuto.

«Mi sono divertito a operare scambi di nomi e di persone, a partire da quello del protagonista, Marino, e di sua moglie Paola. Mia moglie, in effetti, si chiama Marina… Per quanto riguarda i giornalisti che compaiono nel libro, alcuni dei tanti colleghi che ho conosciuto nella mia carriera professionale vi si potranno facilmente riconoscere».

Quando hai scritto il libro?

«Ho scritto il libro in pochissimo tempo due estati fa, quando mi sono messo in aspettativa. Il finale l’ho scritto subito dopo essere rientrato al giornale, a settembre».

Molti considerano il mestiere del giornalista un privilegio. Non sanno che in alcuni casi richiede sacrifici enormi come quello di essere rinchiuso in una redazione per dodici ore di fila tutti i giorni . Quanto si paga in termini umani il rinunciare a vivere per fare il giornale?

«Moltissimo. Così tanto che, dopo venticinque anni di lavoro all’interno del giornale, di cui quindici da caposervizio della Cultura, non ne ho potuto più. Diceva John Lennon: la vita è quella cosa che scorre mentre noi stiamo facendo i dischi. Bene. Io mutuo questa frase completamente e l’adatto alla mia esperienza: la vita è quella cosa che scorre mentre io sto chiuso nella redazione a fare il giornale. Certo, anche il rinunciare al giornale ha avuto un prezzo: la rinuncia a uno stipendio e la delusione di accorgermi che prima erano in tanti a cercarmi».

Peraltro tu non volevi fare il giornalista?

«Esatto. Io volevo fare il musicista o il musicologo. Non ho potuto fare né l’una né l’altra cosa e, nel frattempo, mi è capitato il giornale».

Ami ripetere ai tuoi studenti di Scienze della comunicazione, usando un’espressione forte, che quello del giornalista è un “mestiere di merda…”

«E lo confermo. Lo è perché non c’è nessuna idea della meritocrazia, ed è un problema tutto italiano. A me è capitato di essere assunto contro le aspettative di chi voleva a tutti i costi agevolare una persona raccomandata. Fu il direttore di allora, Andrea Barberi, a puntare i piedi e a preferire me. Io sono stato un’eccezione alla regola, purtroppo diffusa nel nostro Paese, di piazzare all’interno dei giornali persone in qualche modo governabili. È imbarazzante, oggi, assistere a interviste in cui i giornalisti non fanno domande, e parlo di domande comuni che farebbe l’uomo della strada. Milena Gabanelli è diventata un’eroina ma, se ci pensiamo bene, lei non fa altro che il suo mestiere».

Dopo “Il mistero dell’oro di Dongo”, che libri ha in cantiere Paolo Di Vincenzo?

«Mi piacerebbe continuare su questa strada e fare un altro paio di puntate con lo stesso protagonista, Marino Picucci, che viene chiamato a indagare da giornalista su altri misteri. L’idea è quella di partire da fatti reali. E le idee non mancheranno visto che in Italia, purtroppo, i misteri non mancano. E a volte si ripetono. A qualcuno la vicenda dell’oro di Dongo sembra una cosa lontana ma, se ci pensiamo bene, molto vicina a fatti che avvengono anche oggi. Con la morte di Gheddafi è accaduta la stessa identica cosa. Un dittatore in fuga con soldi e documenti che devono servirgli come lasciapassare, la cattura e l’uccisione senza processo, i dubbi e le cose che stanno venendo ora a galla circa i suoi legami con l’Inghilterra e la Francia in particolare».

CHI È

Paolo Di Vincenzo è nato a Pescara il 9 dicembre 1961. Nel 1985 si laurea in Musicologia al Dams di Bologna. Nel 1986 comincia a collaborare, come critico musicale, con “il Centro”, il quotidiano dell’Abruzzo in cui è stato assunto nel 1990. Dopo qualche anno di cronaca è passato a Cultura & Spettacoli, redazione della quale è diventato caposervizio responsabile nel 1998, ruolo che ha conservato fino al 5 settembre 2011 quando si è licenziato. Dall’anno accademico 2011/2012 è docente a contratto di Comunicazione e tecnica del giornalismo nella facoltà di Scienze della comunicazione dell’università di Teramo. Con la moglie, Marina Di Crescenzo, ha aperto un sito Internet: www.arteabruzzo.it

Nicola Catenaro

Intervista pubblicata su “La Città del 18 luglio 2013

di Nicola Catenaro

venerdì 19 Luglio 2013 alle 15:23

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Un commento per 'Romanzo “svela” il primo mistero della Repubblica'

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  1. Grazie Nicola Catenaro, ottima intervista. Un abbraccio

    Paolo Di Vincenzo

    20 Lug 2013 alle 20:17

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