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«L’Abruzzo non è più corrotto del resto d’Italia»

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Nicola Trifuoggi

A L’Aquila, quando incontriamo Nicola Trifuoggi, c’è una fastidiosa pioggerellina che non consente neanche a chi è munito di ombrello di ripararsi.

È una sensazione per certi versi simile, ci viene da pensare, a quella di chi vorrebbe liberarsi da un incubo che invece gli sta sempre addosso e non lo fa respirare.

L’incubo vissuto da una città che, il 6 aprile 2009, si è vista crollare addosso non solo i muri delle case ma il diritto a un’esistenza normale. Il confronto con l’ex procuratore avalla i nostri pensieri.

Nicola Trifuoggi, vice sindaco e assessore alla Trasparenza del Comune dell’Aquila. Ha accettato la proposta del sindaco Cialente per quale principale ragione?

«Perché mi è stato detto che la mia presenza nella compagine amministrativa di questa città avrebbe potuto dare una mano sia sotto il profilo della indispensabile riorganizzazione di alcuni servizi sia sotto il profilo dell’immagine, in quanto L’Aquila, di recente, è stata fatta oggetto di attacchi beceri e ingiustificabili. Il sindaco ritiene che con la mia presenza qui vi possa essere un’inversione di tendenza. Non so se succederà, ma io ho accettato per questi motivi e ovviamente perché sono molto affezionato a questa città».

Ha scelto di lavorare gratis? Perché?

«Perché non volevo che neanche lontanamente si sospettasse che avrei ricevuto un beneficio da questo lavoro. Ho rinunciato all’indennità che mi competeva come vice sindaco e assessore e anche ai rimborsi per le spese che sostengo».

La sua attività in cosa consisterà?

«Bisogna portare a termine le operazioni sulla trasparenza e quindi la pubblicazione sull’albo del Comune dei vari provvedimenti che vengono emanati. Ci sono difficoltà perché c’è uno scontro tra le norme nazionali, che prevedono la pubblicazione di una serie di dati, e il Garante  della privacy, il quale ritiene che quei dati non devono essere pubblicati. Sono poi anche assessore alla Polizia municipale e all’ispettorato urbanistico per verificare lo stato della ricostruzione ed eventualmente prendere provvedimenti anche sanzionatori a livello amministrativo o mediante segnalazione alla Procura della Repubblica».

Su cosa sta lavorando in questo momento e cosa è emerso finora?

«Questa è la fase in cui sto cercando di comprendere appieno il funzionamento della macchina. Mi sono stati segnalati dei problemi, sicuramente ce ne sono degli altri, sto aspettando di verificare quali sono per poi stabilire le priorità. Tra gli incarichi, ho anche quello della centrale unica di committenza, fondamentale perché scinde in due la fase dell’affidamento di commesse ed appalti: vi sarà una prima fase, istruttoria, con ovvi contatti da parte del responsabile del procedimento con professionisti e imprese, e vi sarà una seconda fase, quella appunto della centrale unica di committenza che, senza avere contatti personali con nessuno, deciderà per il meglio sul da farsi. Ed è anche questa un’operazione di pulizia, diciamo, d’immagine».

Cosa pensa dell’inchiesta “Do ut des”?

«Penso che si tratti di fatti datati e circoscritti che, statisticamente, ci stanno in una fase emergenziale come quella che hanno vissuto e stanno vivendo la città dell’Aquila e i Comuni del cratere. Mi sembra che non potesse né dovesse costituire l’occasione per una campagna di tiro alzo zero su tutti gli aquilani. Ovviamente mi auguro che non ci siano altre indagini di questo genere, ma non ci siano perché non ci sono altri fatti di corruzione. Se invece ci dovessero essere, mi auguro che vengano scoperti e perseguiti. Io credo che questa amministrazione e questa città debbano dimostrare di sapere fare pulizia al loro interno prima che intervenga qualcun altro perché quella è una dimostrazione di forza. La politica della spazzatura sotto il tappeto non paga. Prima o poi qualcuno si accorge della spazzatura e chi l’ha nascosta viene considerato complice, quanto meno morale. Noi dobbiamo essere fuori da questa logica».

Trifuoggi nel suo ufficio a L'Aquila

L’Abruzzo è stato spesso al centro di vicende giudiziarie pesanti, che parlano di malaffare, corruzione, malcostume e sciatteria nella gestione della Pubblica Amministrazione. Le inchieste post terremoto ne sono la dimostrazione. Ultimamente, anche se meno grave, la vicenda Rimborsopoli. Siamo una regione corrotta?

«Assolutamente no. Siamo una regione nella media di tutte le altre. Diciamo piuttosto che, per una serie di motivi che non sto qui ad esaminare anche perché richiederebbero degli studi di persone più esperte di me in proposito, il tasso di corruzione in Italia, come emerge anche dalle relazioni che vengono periodicamente pubblicate, è altissimo. Conta poco stabilire perché. O meglio conta al fine di evitare di prevenire ulteriori incrementi. Però è un dato di fatto. E nell’ambito di questo dato di fatto, l’Abruzzo, che non fa parte degli Stati Uniti d’America ma dell’Italia, si ritrova per quanto ne so nella stessa situazione di tutte le altre regioni d’Italia».

Sanitopoli, secondo lei, è il più grave scandalo giudiziario che ha investito l’Abruzzo?

«Preferisco non parlarne. Non sono più un magistrato, non sono più il procuratore della Repubblica di Pescara. In questo momento faccio il vice sindaco dell’Aquila».

Su questo punto ho un’altra domanda… C’è chi sostiene che l’ex governatore Del Turco sia stato condannato senza che vi fosse l’esistenza di una prova concreta circa il fatto di aver preso materialmente tangenti. Lei ha mai avuto dubbi, durante l’inchiesta o dopo, circa i capi che gli venivano imputati?

«Guardi, come le ho detto non rispondo sul fatto specifico. Le faccio però una considerazione di tipo generale. Io non ho mai portato avanti un’inchiesta se non fossi stato assolutamente convinto di ciò che stavo facendo. E quando dico mai intendo ricomprendere tutto quello che ho fatto. Il mio problema era quello di andare la sera a dormire tranquillo, senza scrupoli per aver sbagliato. E se mi fossi convinto di aver sbagliato, non avrei esitato un attimo a tornare indietro. Sono gli sciocchi quelli che vanno avanti a ogni costo. Le persone sagge, non so se mi possa definire tale, sono quelle che correggono i propri errori se si rendono conto di aver sbagliato».

Fece scalpore, durante una edizione del Premio Borsellino, lo scambio di battute con l’ex presidente della Camera Gianfranco Fini su Berlusconi. Venne fuori cosa pensava lei del Cavaliere, con cui ebbe a che fare  quando fu tra i pretori che nell’’84 oscurarono le reti Fininvest. Ma Berlusconi è stato solo un male per l’Italia, secondo lei?

«Non sta a me stabilirlo, assolutamente… Sì, fui uno dei tre pretori che in Italia sequestrarono le antenne televisive, e non solo di Berlusconi ma anche di Mondadori perché all’epoca Rete 4 era di proprietà di Mondadori, perché non rispettavano le leggi. Tanto che, per superare i nostri provvedimenti giudiziari, fu necessario cambiare la legge, quindi non eravamo degli avventurieri del diritto. Per quanto riguarda poi quel colloquio con Fini, che per la prima volta in vita mia vedevo in quella circostanza fatta eccezione per le volte che l’avevo visto in televisione come tutti gli italiani, il presidente si aprì con me e io lo stetti a sentire anche per una forma di doverosa cortesia istituzionale trattandosi della terza autorità dello Stato, presente quel giorno a Pescara, e mi limitai a fare una considerazione in ampliamento e a chiarimento di quello che stava dicendo. Se non ricordo male, dissi, visto che lui lo accusava di cesarismo, che se avesse voluto fare l’imperatore avrebbe dovuto nascere duemila anni fa. Una considerazione del tutto innocua». 

Da cosa si guardava più spesso quando faceva il magistrato e da cosa si deve guardare chi fa questa professione?

«La dote principale di un magistrato è l’equilibrio, i codici li può imparare a memoria chiunque. Ci vuole inoltre rigore ed è chiaro che ci vuole onestà e trasparenza ma questo vale per tutte le attività. Deve infine stare attento a pseudo amici e agli ambienti che frequenta e questo al fine di preservare l’immagine, l’apparenza, perché poi la sostanza il magistrato ce l’ha dentro e l’importante è che abbia quella».

Ritiene che il governatore Chiodi, in seguito alla vicenda Rimborsopoli e a ciò che è scaturito ed è emerso pubblicamente, si sarebbe dovuto dimettere?

«Non ho idee su quello che dovrebbe o non dovrebbe fare il presidente Chiodi. Sono un convinto assertore della indipendenza di ciascuno di noi, intellettuale e morale. Ciascuno di noi sa quello che deve fare. E quello che fa lo deve sentire e quindi non c’è bisogno di suggerimenti di alcun genere».

Si parla di lei per un possibile incarico alla Regione se dovesse vincere il centrosinistra. Accetterebbe?

«E il vice sindaco dell’Aquila chi lo fa? (Risate). No, assolutamente no, non accetterei. Ho preso questo impegno non perché mi debba servire come trampolino di lancio per non so bene cos’altro, ma con il serio intento di dare una mano, per quanto nelle mie capacità e per quanto riuscirò a fare. Accettare un incarico alla Regione significherebbe lasciare fra tre mesi il Comune dell’Aquila oppure fare questo lavoro part-time. E questo non è possibile».

CHI È

Nicola Trifuoggi è nato nel 1942 ad Avellino. Si è laureato in giurisprudenza all’università di Napoli nel 1965 ed è magistrato dal 1967. È stato pm a Genova e pretore a Recco prima di iniziare la lunga carriera in Abruzzo: pretore a Pescara, dal 1989 capo della procura circondariale a Chieti, dal 1998 responsabile della distrettuale antimafia all’Aquila e, infine, dal 2003, a capo della procura pescarese. È in pensione dal 31 luglio 2012.

Nicola Catenaro

Intervista pubblicata su “La Città quotidiano” del 20 febbraio 2014

di Nicola Catenaro

giovedì 20 Febbraio 2014 alle 23:37

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