Il regista dei documentari che viaggia con Ammaniti
Ha girato documentari per “Geo&Geo” e “La storia siamo noi” e fatto film con Niccolò Ammaniti. Sì, Ammaniti lo scrittore. Ha viaggiato con lui in India per realizzare “Goodlife”, serie di tre documentari per Current Tv, Stefano Saverioni, trentasei anni, di professione video maker. Anzi, no, precisa lui: film maker. Perché, gli chiediamo, che differenza c’è?
La differenza, risponde, «sta nel fatto che il film maker ha almeno la prospettiva di realizzare un film. Il video maker, invece, lavora più sull’audiovisivo».
Saverioni, come è arrivato a fare quello che fa?
«Vivendo un periodo di tempo piuttosto lungo insieme a un amico, al quale a venti anni diagnosticarono un tumore. Il mio amico, sottoposto alla chemio, era obbligato a stare a casa. Io gli tenevo compagnia. Insieme abbiamo visto una gran quantità di film, che ottenevamo in prestito dalla mediateca, molto fornita, che all’Aquila aveva messo in piedi il professor Umberto Dante. Ogni giorno un film diverso, un’incredibile miniera costruita di fatto con le registrazioni dal programma televisivo di Raitre “Fuori Orario”».
E cosa accadde?
«Il mio amico Fabio guarì e io mi accorsi di masticare bene la storia del cinema. Da qui il sogno di diventare regista».
Ma lei era già iscritto all’università?
«Sì, frequentavo Scienze Ambientali. Era il 1999. Mi trovavo al terzo anno. Provai a passare le selezioni per entrare al Centro sperimentale di cinematografia. Passo le prime selezioni, e anche le seconde e le terze e arrivo a Roma per il cosiddetto bimestre propedeutico, che consisteva in tre mesi a Cinecittà al termine dei quali sarebbe stato selezionato un ristretto gruppo di sei allievi».
Si trasferì a Roma?
«Sì, mi trasferii a Roma dal piccolo paesino di Sciusciano in cui vivevo. Un passaggio notevole. Fu abbastanza duro, soprattutto all’inizio. Ero da solo e senza alcun appoggio».
E come andò a Cinecittà?
«Bella esperienza, ma arrivai settimo oppure ottavo non ricordo. Non riuscii a entrare, comunque»
Peccato…
«No, forse fu una fortuna, ma questo è un altro discorso».
Rimase a Roma?
«Sì. Feci un po’ di gavetta sui set. Ricordo, tra le prime cose, che diedi una mano all’assistente al montaggio nel film “La capa gira” di Alessandro Piva. Lo aiutai a fare il rullo per i sottotitoli. Dopo quella esperienza, durata all’incirca un anno, tornai a Teramo».
A Teramo?
«Sì, tornai a Teramo e colsi l’opportunità offerta dall’emittente locale Tvsei con cui lavorai circa quattro anni».
È stata importante questa esperienza?
«È stata fondamentale. Se vuoi migliorare e progredire, serve fare un’esperienza pratica. Per me è stata quella la gavetta più importante. Poi, però, nel 2005, mi sono dimesso, rinunciando a un contratto a tempo indeterminato, perché volevo completare il mio percorso di studi a L’Aquila in Scienze Ambientali e iniziare le riprese del mio film documentario, “Il diario di un curato di montagna”».
Una storia vera.
«Sì, la storia di don Filippo Lanci, un prete di montagna o di campagna, comunque la si voglia mettere un prete di provincia ma sui generis, con una forte aspirazione artistica, che viene mandato in esilio a Pietracamela. Tre anni di lavoro. Il film nel 2009 arrivò finalista ai David di Donatello, quasi non ci credevo. Contemporaneamente realizzai con il Cineforum di Teramo il cortometraggio “La Madonna della frutta” di Paola Randi con Isabella Ragonese (tratto dal soggetto “Ognuno… a suo modo” di Simona Ippoliti, vincitrice del concorso “Scrivi un soggetto per un cortometraggio sul servizio civile” promosso dalla Provincia di Teramo, ndr). Un lavoro, in cui facevo il direttore di produzione, che ottenne la nomination ai David per il miglior corto. L’anno dopo, il film “L’uomo fiammifero” di Marco Chiarini, in cui feci l’aiuto regia e il direttore della fotografia della seconda unità, prese due nomination come miglior film d’esordio e migliori effetti visivi. Insomma, nel giro di pochi anni, una piccola realtà come Teramo mi aveva consentito di raggiungere traguardi impensabili».
E in mezzo ci fu Cineramnia.
«In mezzo ci fu l’esperienza di Cineramnia, di cui ero direttore artistico insieme a Dimitri Bosi e Marco Chiarini».
E a Roma quando tornò?
«Subito dopo. E tornai con una situazione piuttosto diversa. Grazie anche ai lavori realizzati a Teramo, mi accorsi che l’interesse per le mie attività era cresciuto».
Non è un mistero che con l’arte, anche quella cinematografica, non si campa se non in rari casi. Lei, nel frattempo, come si guadagnava da vivere?
«Lavorando nell’audiovisivo, come documentarista e regista. Cose anche molto interessanti, come le esperienze fatte con “La storia siamo noi” e “Geo&Geo”».
E ci si riesce?
«Una volta sì, ora no. In Italia le produzioni sono diminuite e di fatto non si produce più. La crisi ha colpito anche il mercato televisivo. Le emittenti italiane comprano all’estero e quindi qui non si trova più richiesta. Io ho la fortuna, insieme a pochi, di lavorare ancora ritagliandomi piccole produzioni e spaziando dall’attività di direttore della fotografia a quella di montatore e regista».
E gli altri suoi colleghi?
«La gran parte delle persone è sul punto dell’espatrio».
Quali progetti ha in cantiere ora?
«Un documentario sulla battaglia di Caporetto e un film sulla storia di un italiano e di un austriaco durante la prima guerra mondiale».
Quali sono le fasi di un progetto cinematografico?
«Si scrive il progetto, lo si presenta a una serie di produttori, i quali a loro volta si muovono per cercare fondi tramite vari canali come il fondo ministeriale o la ricerca di co-produzioni presso le televisioni, e poi si aspetta…».
Un processo lungo.
«Lunghissimo. Dico sempre che chi vuole fare questo lavoro deve avere i soldi in tasca. In Italia non c’è più un’industria cinematografica che faccia prodotti su larga scala e in maniera continuativa, non c’è una filiera, è tutto spezzettato, aleatorio».
Nel mondo cinematografico, quante cose non riusciamo a vedere che invece varrebbe la pena vedere? Quanta produzione sommersa c’è?
«Tanta, di sicuro. Ma c’è anche tanta roba che non riusciamo a vedere e che, pur costata soldi allo Stato, non vale niente. Tanti soldi pubblici vanno a finire in produzioni che hanno già un destino segnato, quello di non essere viste dal pubblico. Questo è un grande problema».
Si nasce o si diventa film maker?
«Si può avere una certa inclinazione ad esserlo, ma poi i punti di vista sono tanti per quanti sono quelli che svolgono questo lavoro».
Qual è l’inquadratura migliore, quella perfetta?
«C’è un momento in cui, non per un caso fortuito ma dopo una serie di tentativi, tutto raggiunge il massimo. È quella e solo quella l’inquadratura migliore».
Quanto c’è di poetico e quanto di politico nell’approccio di chi si mette dietro una macchina da presa?
«È una bella domanda, che richiederebbe una lunga risposta. Per quanto mi riguarda, però, la risposta è semplice: vorrei che le mie immagini fossero un ponte per riflettere sulla vita e avessero connotazioni più poetiche che politiche».
Ma quanto c’è di poetico nella realtà che vediamo tutti i giorni? In fondo dipende da noi, o no?
«Oggi accade che non riusciamo più a vedere la poesia nella realtà che ci circonda e che il mezzo che usiamo per guardarla, in questo caso la telecamera, ci consenta di vederla o persino di ricostruirla. È comunque un’esperienza individuale, dipende da noi certo. Il modo con cui si guarda la realtà trasforma in poesia le cose».
Che rapporto ha con Teramo?
«L’adoro e vorrei tornarci. Sono diventato papà e vivo il desiderio di non far vivere mio figlio in una metropoli».
CHI È
È nato a Teramo nel 1977, si è laureato a L’Aquila in Scienze ambientali. Sposato con un figlio, da diversi anni risiede a Roma. Dal 2000 lavora da freelance come regista, direttore della fotografia, producer ed editor. Il suo film “Diario di un curato di montagna” ha ricevuto la nomination ai David di Donatello 2009 come miglior documentario di lungometraggio. I suoi lavori sono stati trasmessi dai più importanti broadcasters nazionali ed internazionali (RAI, La7,BBC World, Fox, Rsi, Tele Catalogna, Planet Tv).
Nicola Catenaro
Intervista pubblicata su “La Città quotidiano” del 12 dicembre 2013